martedì 25 settembre 2007

La Voce


La mia culla era a ridosso d'una biblioteca,
tetra Babele in cui romanzi, scienza,
storielle, tutto, la cenere latina
e la polvere greca s'ammucchiavano.
La mia altezza era quella d'un in-folio.
Due voci mi parlavano:
l'una mi diceva, insidiosa e ferma:
"La terra è una gran torta
dal sapore squisito; io posso
(e il tuo piacere sarebbe senza limiti!)
suscitare in te un eguale appetito".
E l'altra: "Vieni oh! vieni a viaggiare lontano
nel sogno, oltre il possibile, oltre il conosciuto!"
Questa cantava come il vento delle rive,
fantasma che vagisce, da chissà dove venuto,
che accarezza l'orecchio e insieme l' atterrisce.
Io ti risposi: "Si, dolce voce!". E a quell'epoca
risale quella che può dirsi, ahimè! la mia ferita
e la mia fatalità. Dietro i tanti scenari
dell' esistenza immensa, nel più nero fondo dell'abisso,
vedo distintamente mondi strabilianti,
e della mia chiaroveggenza estatica vittima
io stesso, mi trascino dietro serpenti
che s'avventano a morsi contro le mie scarpe.
É da allora che, in tutto simile ai profeti,
così teneramente amo i deserti e il mare;
che rido ai funerali e piango nelle feste,
e trovo un gusto soave nel vino più amaro;
che prendo il più delle volte i fatti per menzogne,
e, gli occhi al cielo, cado nelle buche, distratto.
Ma la voce mi consola, dice: " Tieniti i tuoi sogni:
i savî non ne hanno di belli come i matti!"

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